mercoledì, dicembre 24, 2008

Sfratto

Non possiamo sradicare il male, possiamo soltanto sfrattarlo, costringerlo a spostarsi altrove. E quando quello trasloca gli va sempre dietro anche un po’ di bene. Non possiamo alterare mai il rapporto tra bene e male, possiamo solo tenere le cose in movimento, affinché né l'uno né l'altro si solidifichino.

> Tom Robbins, Natura morta con picchio, 1985

domenica, dicembre 21, 2008

Simultaneità

Non ti torturare, figlia mia.
Resisti a te stessa: non trattenere ciò che è stato, non cercare ciò che sarà.
Riconosci come perfetto ciò che hai compiuto, ciò che si è compiuto.
E scrivi ciò che ti dico; non come insegna, né come proposito: ma come preghiera al Mistero, che non ti appartiene.
Non lo dico affinché ti rassegni o ti disperi. Se così fosse, saresti in preda all’avversario – che prima lusinga e poi sbrana.
Lo dico, anzi, affinché tu possa arrischiarti a un affidamento maggiore. Che oggi è un maggiore sacrificio, poiché tu lo rapporti al tempo così come ti appare; ma è l'unica, vera simultaneità tra dolore e riparazione, tra il desiderio e il suo compimento.

di Elianto

martedì, dicembre 16, 2008

Affetti speciali

Dobbiamo riconquistare la sapienza del vetro scuro, della penombra misteriosa, della fede che dà sostanza a ciò che non sta alla superficie del visibile. I grandi eventi coi riflettori se ne vanno come sono venuti. Effetti speciali che non hanno sostanza. Affetti speciali, piuttosto, strappati ai lati oscuri della vita, che legano l’anima al corpo e il corpo allo Spirito.

> P. Sequeri, L’ombra di Pietro. Legami buoni e altre beatitudini, 2006

domenica, dicembre 07, 2008

Ingresso in Gerusalemme

Sulla soglia incontro H. Capita di rado, ma capita, essendo noi diventati, ormai da qualche anno, vicini di quartiere. Dunque non è un fatto così meraviglioso; a causarlo è la probabilità, più che il destino. L’elemento forse paradossale – quello sì, sorprendente — è il luogo, la piazza che ospita l’incontro, ovvero un sagrato. Ci si incrocia subito fuori dalla chiesa, prima o dopo la celebrazione; o ci si avvista durante la processione alla comunione, cui entrambi, inspiegabilmente, ci accostiamo.

La mia conoscenza di lui si è interrotta nel ’92, e me lo ricordo come un “mangiapreti”. Io stessa, allora, non frequentavo ancora gli atri di Dio; né assiduamente, come è stato per tutti questi scorsi anni, né irregolarmente, come oggi, circa, mi consento di fare. Non li frequentavo, non li frequentavamo. Ed eravamo felici così.
Bastavamo a noi stessi: forti, giovani, innamorati. Almeno fino a un certo punto.
Dopo tutto questo tempo, più di quindici anni (ma quante vite?), rivederlo è quasi un piacere. Riconoscere la sua figura, i suoi tratti somatici, le sue particolarità fonetiche, la sua immodestia. Che in superficie è quasi urtante, ma diverrebbe certo secondaria, persino invisibile, se entrassi di nuovo in relazione con lui; perché passerebbe senz’altro in secondo piano – almeno ai miei occhi – rispetto allintelligenza. La sua è una testa logica, soprattutto; e i pregi della logica, per chi ne fosse assetato, potrebbero oscurare il resto. Nessun problema dunque: la vanagloria è facile a tollerarsi o comunque a perdonarsi.


E così ascolto le sue vicende private, ma ancor prima i suoi risultati professionali (ogni volta mi aggiorna, perché ogni volta è una promozione); io balbetto i miei, il più fluidamente che mi riesce, incespicando nel solito problema di spiegare in cosa consiste il mio lavoro. Ormai ci ho fatto il callo; ed è un callo che procura quasi inerzia, sino al limite della passività. Insomma non mi sforzo a descrivere più nulla. Qualunque cosa sia e come sia definibile (persino il fisco fatica a codificare la mia attività, che annovera nella categoria “Altro”), il mio lavoro mi piace e per fortuna mi diverte. Sono in proprio (pr. frileens), guadagno poco e non ho alcun benefit, ma quello che faccio mi dà stimoli continui. Sono dunque nella fortunata condizione di non dover invidiare nessuno, ma nemmeno, soprattutto, di compiacermi. «Mi pagano laereo da qualsiasi parte debba prenderlo per tornare», vanta lui, con il suo ghigno tipico di fierezza; io penso Ma ancora lì, sei? Riposa il tuo cuore. In conclusione, servendo l’altare dell’equilibrio: la vanagloria ci assimila, più che dividerci. E senzaltro anche ai tempi era così.

Come sempre quando lo incontro, tiene mano nella mano J. Con cui scambio qualche gioviale battuta, vincendo la trappola di timidezza che mi inchioda ogni qual volta debba affrontare un bambino in età prescolare. Una somma pavidità che tuttavia vorrei interpretare, indulgente verso me stessa, come estremo rispetto. Ma in verità, diciamocelo, è una forma di scaltrezza. I marmocchi sono delle mine vaganti: accenderli o spegnerli è sempre un rischio, o quantomeno una fatica immane. Se poi, malauguratamente, stai loro antipatico, non ci mettono né due e né tre a torturarti o, peggio, avvilirti. Diaboliche creature: meglio ignorarle, se non si è proprio costretti a fare altrimenti (tipo educarli).

Dunque in questa nostra piazza — insolita e consueta a un tempo — che è il sagrato, ci si racconta un po’. Per rompere il ghiaccio avevo provato a buttargli lì un piccolo appunto ironico sullomelia.
«Se il sacerdote si trova costretto a specificare che il puledro della nuova traduzione», dico, «è in realtà un asino, come in effetti è sempre stato, a cosa serve la nuova traduzione?» Del resto, anche sotto altri rispetti, il sacerdote in questione mi era parso di scuola piuttosto conservatrice. «Certo che è un po’ paradossale... vero?» incalzo.
In H nessuna reazione, se non quella un po’ ritrosa di chi si schermisce da un attacco delirante, verso cui non prova la minima solidarietà. Eppure questo fatto dell’asino-puledro mi aveva sollecitato e incuriosito. Mi chiedo quali conseguenze possa avere su un’eventuale catechesi a proposito dell’ingresso in Gerusalemme.
Una volta rientrata a casa, la ricerca in rete tutto soccorre e riconcilia: trattavasi di un puledro, ma figlio d’asina.

di Elianto

sabato, dicembre 06, 2008

A proposito dell'amore e della perdita

Parole e musica: Un mito: Steve Jobs

Origine

Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo: "me". Se accetto l'idea di essere l'effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall'eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali. […]
Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica. […] La vittima è l'altra faccia dell'eroe. Più in profondità, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano o non affrontano in maniera soddisfacente — che è come dire ignorano — il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana.
[…] Leggere a ritroso significa che la parola chiave per le biografie non è tanto "crescita" quanto "forma", e che lo sviluppo ha senso soltanto in quanto svela un aspetto dell'immagine originaria. Beninteso, ciascuna vita umana di giorno in giorno progredisce o regredisce, e noi vediamo svilupparsi svariate facoltà e le osserviamo decadere. E tuttavia l'immagine innata del nostro destino le contiene tutte nella compresenza di ieri, oggi e domani. La nostra persona non è un processo o un evolversi. Noi siamo quell'immagine fondamentale, ed è l'immagine che si sviluppa, se mai lo fa. Come disse Picasso: «Io non evolvo. Io sono».
Tale, infatti, è la natura dell'immagine. L'immagine è presente tutta in una volta.

> James Hillman, Il codice dell'anima, 1997


«Chi ghn'à mia in quidzëina, ghn'à gnan in trintëina».
[Chi non ha senno a quindici anni, non ne ha neanche a trenta].
Detto piacentino